
Comunicare la sostenibilità: la vera partita della competitività UE
di Carlo Corazza, Direttore Ufficio Parlamento Europeo in Italia
Approvato nel 2019, il Green Deal europeo è stato al centro della legislatura 2019/2024. Buona parte dell’attività normativa degli ultimi anni, a cominciare dal pacchetto “pronti per il 55”, è infatti legata alla sua attuazione. Il Green Deal si può riassumere in 5 pilastri: target ambiziosi, con il taglio del 55% delle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2050; finanziamenti per sostenere una transizione giusta e per rafforzare la competitività dei settori economici che devono tagliare le emissioni; un quadro normativo che spinga i principali settori verso la decarbonizzazione; l’integrazione del mercato europeo dell’energia, anche al fine di valorizzare il potenziale delle rinnovabili e aumentare la sicurezza energetica; la diplomazia del Green Deal, che comprende accordi con paesi terzi e un meccanismo di compensazione del carbonio alla frontiera, una sorta di dazio per importazioni di prodotti che non rispettano gli standard ambientali UE.
Il Parlamento europeo ha approvato numerose direttive e regolamenti, che hanno riguardato, tra l’altro, agricoltura, pesca, industria dell’auto, economia circolare, tessile, scambio delle emissioni, trasporti, efficienza energetica e rinnovabili. Circa 1/3 di tutte le risorse UE, tra cui i fondi del debito europeo da 700 miliardi contratto per sostenere Next Generation EU, il 40% dei fondi agricoli, il 30% dei fondi per la ricerca di Orizzonte europea e il 35% di fondi di InvestEU, sono vincolati alla sostenibilità, così come circa il 50% dei prestiti della Banca Europea d’Investimento.
Questi investimenti e un quadro normativo all’avanguardia nel primo mercato al mondo, hanno consentito all’UE di assumere una chiara leadership delle politiche per contrastare il surriscaldamento, considerato una delle sfide globali più urgenti e drammatiche da affrontare. Eppure, nel dibattito pubblico, non poche critiche si sono levate da più parti contro la strategia europea tacciata di eccessiva ideologia e scarsa attenzione per la competitività. Queste critiche sono state anche al centro del dibattito che ha preceduto le elezioni europee di giugno 2024. Attualmente, i gruppi politici sono profondamenti divisi sul Green Deal. Parte delle forze più a destra o euroscettiche lo considerano il frutto di un’ideologia green che ha penalizzato l’industria e l’agricoltura europea mettendoci in una posizione di svantaggio competitivo e rafforzando la dipendenza dalla Cina. Parte del PPE, Liberali, Socialisti i Verdi e la Sinistra lo considerano invece un passo importante verso una maggiore sostenibilità e difendono le misure adottate.
Comunque la si pensi, è un dato di fatto che dall’approvazione della legge sul Green Deal nel 2019 sembra passata un’era geologica. Negli anni successivi vi è stato il covid, l’aggressione russa all’Ucraina, la crisi energetica, il 7 ottobre, la vittoria di Trump che ha rimesso in discussione l’alleanza tradizionale tra europei e USA anche imponendo dazi asimmetrici non giustificati all’UE.
Si è delineato in maniera sempre più netta un fronte di regimi autoritari pronti a cooperare tra loro che vede nelle democrazie liberali i loro antagonisti naturali e cerca di indebolirle con azioni di guerra ibrida, tra cui disinformazione e cyber attacchi. Come ha sottolineato la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyn nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, siamo in guerra, ed è a rischio la stesa indipendenza degli Stati europei e dell’UE.
Il Green Deal e la sua attuazione vanno quindi rivisti alla luce di questo nuovo contesto del tutto eccezionale in cui l’autonomia strategica europea ha un ruolo chiave. Transizione energetica, taglio delle emissioni, sostenibilità, sono tutti termini che vanno coniugati necessariamente con sicurezza energetica, accesso alle materie prime strategiche, competitività, rafforzamento della base manifatturiera, capacità di innovare e di controllare e sviluppare tecnologie di punta.
Se il Green Deal riuscirà a coniugare decarbonizzazione e rafforzamento dell’indipendenza e della forza europea, allora sarà un successo. In caso contrario andrà rivisto e corretto in quelle parti che aumentano la nostra dipendenza da Paesi terzi, magari governati da dittature, come la Cina.
Naturalmente, la prima correzione che serve per allineare il Green Deal alle nuove sfide, così come indicate nel Rapporto che Mario Draghi ha presentato un anno fa alla Commissione e al Parlamento UE, è aumentare gli investimenti, magari anche attraverso un nuovo debito europeo. Le risorse presentate nella proposta della Commissione europea per il prossimo bilancio pluriennale 2028/2034 dalla CE, che rimangono sostanzialmente invariate in percentuale al PIL rispetto all’attuale bilancio, sono largamente insufficienti, specie se paragonate a quanto stanno investendo i nostri principali competitor come Cina e USA. Stiamo parlando di circa l’1,15% del PIL dell’Unione a cui vanno sottratti i soldi per ripagare il debito contratto con Next Generation EU.
È molto probabile che il Parlamento europeo giudichi del tutto insufficiente questa proposta per affrontare le criticità che abbiamo davanti.
In conclusione, il quadro normativo e la spinta alla transazione energetica iniziate con il Green Deal resteranno, anche se qualche correzione è molto probabile. Ma la vera partita della competitività e dell’autonomia strategica UE si giocherà, più che sulle correzioni alla normativa, sulla nostra capacità di comunicare meglio le misure attuate, di dialogare con le imprese e gli altri attori economici e di investire molto di più per accompagnare le trasformazioni necessarie senza penalizzare crescita e lavoro e indipendenza europea.