La cultura, spazio per una “nuova alleanza” tra generazioni

Intervista a Emanuele Caroppo, psichiatra e psicoanalista SPI

Come può la cultura diventare il terreno d’incontro fra giovani e adulti, superando il muro dell’incomprensione? È necessaria una “nuova alleanza” tra generazioni?

La cultura può essere il vero territorio neutrale dove giovani e adulti finalmente si incontrano, non per caso, ma per scelta. Non è solo un luogo fatto di libri impolverati o musei silenziosi: è un’arena viva, pulsante, dove le idee si sfidano e le identità si rivelano. È la lente con cui scrutiamo il mondo e, allo stesso tempo, l’officina in cui possiamo provare a cambiarlo. E quando generazioni diverse si ritrovano a lavorare fianco a fianco – in un laboratorio creativo, in un progetto digitale, in un’iniziativa sociale – accade qualcosa che cattura lo sguardo: cadono maschere, saltano pregiudizi, si dissolvono quelle etichette comode ma fragili che ognuno mette sull’altro.

Gli studi sugli intergenerational programmes raccontano proprio questo: il “fare insieme” è un detonatore silenzioso. Riduce la distanza percepita, accende collaborazioni inaspettate, fa crescere fiducia dove prima c’erano sospetto o indifferenza. Non è magia, è esperienza. È vedere un adolescente spiegare a un adulto come funziona una app, mentre l’adulto, a sua volta, gli mostra come si costruisce una storia. È scoprire che la competenza non ha età, e che il mondo migliore lo si costruisce passandosi gli strumenti, non difendendoli.

Mai come oggi serve una nuova alleanza tra generazioni. Non un patto nostalgico né un contratto sociale da archiviare in una cartella: serve un’alleanza viva, quotidiana, fatta di sguardi che si riconoscono. Gli adulti devono lasciare andare la tentazione del “ai miei tempi”, quella frase che chiude i ponti, spegne la curiosità e rende il dialogo una gara persa in partenza. I giovani, invece, hanno bisogno di adulti che non stiano sulla riva a osservare, ma che entrino in acqua, che nuotino con loro nel flusso del presente, anche quando è veloce, caotico, imprevedibile.

La cultura offre ciò che nessun altro campo possiede: un terreno dove non si dialoga per avere ragione, ma per vedere cosa nasce dall’incontro. Un luogo in cui non conta chi ha più anni, più titoli o più certezze, ma chi ha più coraggio di mettersi in gioco. In uno spazio culturale – che sia un teatro, un podcast, un murales, un festival — avviene un fenomeno straordinario: le generazioni non si sfidano, si intrecciano. Si ascoltano. Si trasformano.

È lì, in quella vibrazione condivisa, che il muro dell’incomprensione inizia a creparsi. Non con grandi discorsi, ma con piccoli gesti: una risata condivisa, un’idea che brilla, un’intuizione che passa da una mano all’altra come una scintilla.

La verità è che le generazioni non hanno bisogno di essere uguali per capirsi; hanno bisogno di uno spazio comune dove poter essere radicalmente se stesse senza temere il giudizio. La cultura è questo spazio. È il ponte che nessuno costruisce da solo. È la promessa che, se ci si incontra davvero, non c’è età che tenga: si riparte insieme.

 

In un’epoca di iperconnessione, segnata da una crescente urgenza di espressione, gli spazi di parola e di ascolto – reali e simbolici – si sono moltiplicati o, paradossalmente, ridotti?

Viviamo in un mondo in cui tutto parla – schermi, chat, notifiche, algoritmi – ma paradossalmente ascoltiamo sempre meno. È un paradosso che abita le nostre giornate: mai così tante parole, mai così poca profondità. Gli adolescenti europei lo percepiscono con una chiarezza disarmante. Secondo il recente rapporto OMS basato sull’indagine HBSC 2021/2022, solo il 68% dichiara di percepire un forte supporto familiare. Non è una misura diretta del “sentirsi ascoltati”, ma illumina una tendenza inequivocabile: un terzo dei ragazzi non si sente accompagnato, compreso, sostenuto. È come se avessero a disposizione microfoni potentissimi, ma pochissimi interlocutori reali. Parlano, postano, condividono – ma spesso nessuno raccoglie davvero quel segnale.

E mentre cresce la loro urgenza di esprimersi, aumentano anche pressione scolastica, ansia, fragilità emotive. Le loro voci scorrono veloci nei flussi digitali, ma si infrangono contro muri di indifferenza o distrazione. È la nuova solitudine connessa: sei circondato da contatti, ma non da relazioni.

I social network, che promettevano connessioni infinite, hanno mantenuto solo metà della promessa. Hanno dato un megafono a tutti, ma quasi nessuno ha trovato un orecchio disposto ad ascoltare. È facile pubblicare un pensiero; è infinitamente più difficile trovare qualcuno che lo prenda sul serio. La rete è un oceano rumoroso: si respirano parole leggere, like che scivolano via, emozioni che evaporano nel tempo di uno scroll. Le connessioni aumentano, ma le relazioni si assottigliano fino a diventare linee sottili, quasi invisibili.

Per questo la vera battaglia culturale del nostro tempo non è parlare di più, ma ascoltare meglio. Non è creare nuovi spazi di espressione, ma progettare spazi di presenza. Occorre ricostruire l’ascolto come pratica quotidiana, come forma di cura, come competenza civile. Dobbiamo creare luoghi — fisici e simbolici — dove la parola non sia un lampo che passa, ma un ponte che resta. Luoghi in cui i giovani non si limitino a “postare” la loro voce, ma possano vederla risuonare in qualcuno.

Laboratori creativi, biblioteche che diventano piazze culturali, progetti artistici in cui le generazioni collaborano, podcast partecipativi dove si impara a raccontare e ad ascoltare: sono questi gli ambienti in cui le parole dei ragazzi tornano ad avere peso specifico, consistenza, direzione. In cui non parlano al vuoto, ma ad altre persone, pronte a rispondere.

Ecco la vera svolta: trasformare il rumore in dialogo. Trasformare l’iperconnessione in interconnessione. Trasformare la solitudine digitale in incontro umano. Non è un sogno romantico, ma un bisogno sociale. Perché senza ascolto, nessuna generazione può capirne un’altra. E senza dialogo, si finisce per camminare su binari paralleli che non si toccano mai.

Quando invece l’ascolto torna al centro, accade qualcosa di potente: le generazioni si voltano, si vedono, si riconoscono. E quel riconoscersi è il primo vero passo per ritrovarsi – davvero.