Nuovi musei per nuovi pubblici

Secondo quanto si legge in un recente rapporto di NEMO, la pandemia ha agito come un enorme crash test sul ruolo, la struttura e il funzionamento dei musei. Ha ampliato le lacune e le differenze esistenti, e provato in modo tangibile che senza adeguate competenze e conoscenze, senza flessibilità e strutture agili, così come senza diversificazione delle fonti di reddito, i musei possono essere esposti al rischio di ridurre drasticamente o abolire alcune delle loro attività, anche primarie, o addirittura di chiudere in modo permanente (NEMO, 2021). Sotto un altro profilo, lo shock pandemico ha anche costretto i musei a prendere coscienza dell’importanza delle risorse digitali come strumento per mantenere vivo il rapporto con il proprio pubblico e per attivare relazioni con nuovi segmenti di domanda, fino a quel momento irraggiungibili.
In Italia, i musei sono distribuiti sul territorio in modo capillare e diffuso. Nel 2019 erano attivi e aperti al pubblico oltre 4.880 tra musei, monumenti e aree archeologiche: uno ogni 50 chilometri quadrati. Un comune italiano su tre ne ha almeno uno. Dal 2006 al 2019, gli ingressi sono cresciuti di quasi un terzo (34%), e di quasi 1,5 milioni nel solo 2019, raggiungendo una cifra record di circa 130 milioni prima della pandemia. Tuttavia, i dati sulla partecipazione dei residenti in Italia, pur in costante crescita nell’ultimo decennio, indicano che nel 2019 poco meno dei due terzi di essi non aveva mai visitato un museo o un sito archeologico in un periodo di dodici mesi. Nel 2020 i musei sono rimasti totalmente chiusi per 126 giorni e per 172 giorni hanno potuto aprire in modo parziale (cioè escludendo i fine settimana) e con una quota limitata di ingressi.
La pandemia ha riscritto violentemente le regole del settore, e le istituzioni che contavano su milioni di visitatori stranieri dovranno rivedere le loro strategie in due direzioni: la prossimità territoriale nel medio termine e l’offerta digitale.
Quando sono entrate in vigore le chiusure di tutti i luoghi della cultura, però, solo una minoranza di musei italiani erano pronti a produrre contenuti digitali per restare attivi e mantenere il contatto con il pubblico, attraverso i propri siti e i canali dei social network. Una volta autorizzate le riaperture parziali e condizionate, il supporto dell’offerta digitale si è confermato utile e capace di raggiungere nuovi segmenti di domanda. Molti musei, però, hanno subito la chiusura forzata impreparati, senza le competenze e la dotazione tecnologica per attuare con successo i cambiamenti necessari. Nel 2019, solo il 38% dei musei italiani aveva avviato la digitalizzazione del catalogo delle proprie collezioni. La digitalizzazione, ovviamente, è solo il primo passo: la produzione di contenuti e mostre virtuali richiede competenze, attitudini e attrezzature diverse. La ragione principale addotta dai musei che non hanno cominciato a digitalizzare le loro collezioni (65,7%) è stata la mancanza di risorse o di personale, mentre il 19,8% non l’ha considerata un’attività strategica su cui investire. In quasi la metà dei musei (45%) le collezioni non erano accessibili online. Nel 2019, meno di due musei italiani su tre (63,4%) avevano un proprio sito web, poco più della metà (57,4%) un account sui social media (Facebook, Twitter, Instagram, ecc.) e solo il 27% era in grado di offrire tour e visite virtuali sul proprio sito. Il 34,3% dei musei non è stato in grado di realizzare un proprio sito web a causa della mancanza di personale con competenze adeguate a occuparsi della progettazione, gestione e manutenzione tecnica del sito, mentre all’11% mancavano le risorse economiche adeguate.
Lo scenario post-pandemico sarà caratterizzato da un progressivo aumento dell’importanza delle risorse digitali, senza tuttavia determinare un completo spostamento della domanda verso queste nuove e diverse forme di esperienza culturale. In altre parole, il reale e il digitale coesisteranno, anche se in un equilibrio diverso rispetto a prima del blocco.
Durante la pandemia, per molti musei italiani la possibilità di produrre e diffondere contenuti digitali, anche al fine di attivare relazioni continuative con una parte (sempre più significativa) del proprio pubblico è stata scarsa, o del tutto assente. Queste relazioni possono essere anche bidirezionali, in quanto il pubblico digitale dei musei, quando ha potuto, ha mostrato interesse e desiderio di essere protagonista di una relazione attiva e coinvolgente con l’istituzione culturale, e non solo spettatore passivo.
La propensione al coinvolgimento del pubblico dei musei, emersa durante la pandemia in misura inaspettata, ha quindi dato una nuova e diversa dignità a chi non visita fisicamente il museo, ma è interessato a seguirne le attività e a interagire con esso anche attraverso nuovi canali e piattaforme digitali. Si ridefinisce così il perimetro della sfera di influenza del museo, che non si limita ai residenti e quindi al territorio locale, né alla sua capacità di intercettare i flussi turistici, nazionali e internazionali. Il museo post-pandemico è quindi un museo potenzialmente senza confini, se non quelli dettati dalla sua capacità di immaginare nuove forme di relazione con il suo pubblico.
Andrea Jones (2000) propone addirittura nuove segmentazioni del pubblico. “Siamo abituati ad articolare il pubblico in base alla demografia, alla geografia, agli interessi, o a pensare ai loro bisogni di apprendimento o ricreativi. Ma essere rilevanti per il pubblico nell’Era della Quarantena significa soddisfare i loro bisogni emotivi”. Come esempi di nuovi frequentatori (virtuali) di musei, Jones elenca le persone che lavorano da casa, genitori disperati che si sentono inadeguati come educatori dei loro figli, studenti impazienti, persone in lutto, professori in DAD, persone sole, persone che si occupano/vivono con/amano operatori della sanità o con lavoratori dei servizi essenziali, persone che hanno bisogno di sollievo dall’ansia e persone stressate o spaventate.
La lezione appresa della pandemia può contribuire a ridisegnare i criteri di classificazione dei musei a livello nazionale e internazionale, che finora si sono basati essenzialmente sul numero di ingressi all’anno. È giunto il momento di ridisegnare l’attrattività del museo (così come l’insieme degli indicatori per misurarla), considerando non solo il numero di visitatori fisici, ma anche il numero e l’intensità degli utenti digitali, che “consumano” il museo attraverso esperienze virtuali.
Per questo, occorre rivedere i contenuti della pianificazione strategica dei musei, considerando l’opportunità di sviluppare una vera e propria “strategia digitale”, e mettere a sistema le risorse digitali a disposizione di ogni museo, che dovrebbero essere considerate parte fondamentale della dotazione immateriale che contribuisce ai processi di generazione e diffusione del valore culturale, sociale ed economico dei luoghi del patrimonio.

Annalisa Cicerchia, Associazione per l’Economia della Cultura