Capitali della Cultura, capitali di comunità

di Paolo Verri, manager culturale

Sono trascorsi ormai più di quattro anni dalla cerimonia di apertura di Matera 2019 ed è possibile fare qualche bilancio in più sulle capitali europee della cultura, su quelli italiane, sull’impatto di questi strumenti come leve di sviluppo territoriale, e di cosa possiamo aspettarci per il presente in corso e un futuro di medio periodo.

Prima della nomina di Matera a capitale europea della cultura, avvenuta il 17 ottobre 2014, dopo tre anni di lavoro e dopo due dal lancio ufficiale del bando, questo tipo di attività non era sotto la lente di ingrandimento dei media e delle amministrazioni, specie di quelle italiani.

I grandi eventi, dopo la stagione del boom anni Sessanta (Olimpiadi di Roma 1960) avevano vissuto la grande crisi derivata dal flop complessivo di Italia ‘90, un rilancio temporaneo con il buon risultato di Torino 2006 e il sospetto che la crisi mondiale del 2008 avrebbe provocato uno stop decisivo agli strumenti della “buona globalizzazione”.

Matera si era candidata grazie ad una utopia collettiva di un gruppo di giovani dai forti legami europei, tra cui alcuni primi fruitori del progetto Erasmus e collaboratori del progetto che aveva portato la città lucana ad essere la prima capace di ottenere il riconoscimento UNESCO a sud di Roma – non solo per i Sassi ma anche per tutta la Murgia con il Parco delle chiese rupestri.

La condizione di governance era ottimale: una regione che per alcuni mandati si era posta come interlocutore serio e fattivo con Bruxelles, capace non solo di un’ottima spesa pro capite, ma anche di un alto grado di innovazione a livello di policies; una città guidata da un Sindaco esperto di relazioni politiche istituzionali, in quanto già eletto sia come Deputato che come Senatore, e tuttavia molto radicato territorialmente; una scena creativa giovane e desiderosa di essere finalmente visibile a livello nazionale, trainata dal successo di un film di culto come “Basilicata coast to coast”. Certo, una sfida che poteva sembrare del tutto impari: quando con Matera al primo turno si presentarono Venezia con tutta il nord est da un lato, e L’Aquila, reduce dal terribile terremoto dall’altra, la possibilità che una piccola città non molto nota del sud potesse vincere si presentava davvero remota!

Matera non si candidava con l’idea di rinverdire un prodotto di turismo culturale pre-esistente, ma di riflettere in profondità sulle sue diverse identità e di tirarne fuori le contraddizioni, le incertezze, le opportunità. La storia dei Sassi diventò la “più bella delle vergogne”; l’eccezionale vicenda di Rocco Petrone, nato negli Stati Uniti dagli ultimi immigrati arrivati negli anni Venti ad Ellis Island, e coordinatore della missione spaziale che portò il primo uomo sulla Luna, diventò la base per una serie di mostre e produzioni, una settimana di eventi dal titolo “Matera vista dalla Luna” culminati nella performance del gruppo di Brian Eno, uno dei più importanti musicisti a livello mondiale, tenutasi nella appena restaurata Cava del Sole, alla presenza di oltre 5000 spettatori, in anteprima alla stessa città di Londra.

Sono solo due delle decine e decine di produzioni originali che in dieci anni si sono svolte in una città di 63.000 abitanti, in una regione della dimensione del Parco di Yellowstone, dichiarata per decenni irraggiungibile e affetta da una specie di morbo di autodistruzione collettiva che pareva aver affetto il sud dell’Italia. Un morbo che impediva di rendere fruttuosi gli investimenti e che prediceva disinteresse da sponsor e da media nazionali e internazionali. I dati precisi, inconfutabili di tutto quello che è accaduto grazie ad un eccezionale sforzo collettivo che ha coinvolto centinaia di persone locali e non, sono facilmente rintracciabili sul sito www.matera-basilicata2019.it; dati riutilizzabili e necessari per mettere a fuoco cosa si sia voluto fare, cosa abbia prodotto al di là dei dati stessi, cosa sia rimasto parzialmente incompiuto e cosa questa storia possa insegnare alle altre che sono seguite.

I due principali filoni di lavoro, come richiesto dalla Commissione europea, sono quelli che vengono definiti come “dimensione europea” e “città e cittadini”. Tutto quello che abbiamo progettato tra il 2012 e il 2020 è sempre stato co-prodotto da altri soggetti europei, grandi o piccoli che fossero, ed è sempre stato co-creato con i cittadini. In pratica, il programma di lavoro ha trasformato i singoli materani da pubblico fruitore tradizionale in soggetti attivi, parte integrante della produzione intellettuale – caso davvero unico in Italia e in Europa, reso esemplare tra gli altri dal progetto “Cavalleria Rusticana”, con la regia e con l’adesione convinta di Giorgio Barberio Corsetti, la coproduzione del San Carlo di Napoli e la diretta su tre reti internazionali. Altrettanto è accaduto con la Chiamata pubblica per il Purgatorio di Dante, coprodotto con Ravenna Teatro e il Teatro delle Albe, e così anche con il progetto di community opera “Silent city”, prodotto insieme alla compagnia teatrale “L’Albero” diretta da Vania Cauzillo.

Sottolineo questi casi specifici – solo alcuni fra molti! – per far riflettere su un punto centrale: la capitale europea della cultura è un luogo in cui si produce cultura. Non a caso questo è stato il titolo del report che Matera ha voluto offrire alla Commissione Europea e al Ministero del Cultura. Allo stesso Ministero, alla presenza del Ministro Dario Franceschini, del Presidente della Parlamento Europeo, David Sassoli, del Presidente della Regione, Vito Bardi, e del Sindaco di Matera, Raffaello de Ruggieri, è stato presentato qualche ora prima della cerimonia di chiusura un dettagliato piano di legacy, con tempi, modi e risorse per attuarlo.

Causa la pandemia, ma non solo, il piano non è stato possibile attuarlo. E vorrei partire da lì per arrivare a qualche insegnamento per la selezione delle capitali italiani della cultura, nonché per l’avvio (ormai imminente!) del percorso che porterà entro il 2028 a selezionare la città italiana che avrà il titolo di capitale europea della cultura nel 2033 – siamo infatti già ai blocchi di partenza per questa nuova competizione. A partire dall’attribuzione del titolo a Matera, e dalla grande, immediata notorietà che la città ha ricevuto, cambiando la percezione di questo strumento, si è deciso di dar vita al titolo di capitale italiana della cultura, attribuendolo nel 2015 alle cinque città che contesero a Matera il titolo maggiore: Cagliari, Lecce, Perugia, Ravenna, Siena.

Purtroppo, quelle città ebbero solo qualche mese per prepararsi e giovarsi del milione di euro di premio a loro attribuito. Pensavo che sarebbe stato meglio attribuire il titolo con cadenza triennale come viene fatto da tempo in Gran Bretagna. Ma a poco a poco, con l’attribuzione di nuovi titoli a Mantova (2016), Pistoia (2017) e Palermo (2018) la qualità del progetto crebbe, e dovetti ricredermi. Nelle città sopra citate la produzione culturale era importante, e la sperimentazione funzionava. Assommando Matera nel 2019 il titolo di capitale europea ed italiana, nel 2020 toccò a Parma, che aveva allestito un piano di attività pubblico- private di primo rango ma che la pandemia mise a repentaglio. Il titolo fu prolungato al 2021, ma anche la pandemia. Parma non poté dimostrare tutto il valore della sua programmazione.

Dal 2022 ad oggi siamo entrati in una nuova fase. Si guarda poco ai contenuti e molto all’effetto di turismo culturale che il titolo può portare; la valutazione ex post di quanto accade nelle singole città non produce effetti rilevanti di miglioramento progettuale complessivo. La sfida è più mediatica e basata sugli stereotipi che sul superamento degli stessi. Un unico dato è veramente positivo: che tutti i finalisti presentano i propri progetti non solo davanti alla commissione giudicatrice, ma in diretta streaming. Tutti possono vedere chi ha fatto bene e male, e anche se i criteri di scelta non sono chiarissimi, ciascuno si può fare la propria idea di base sul valore dei progetti presentati. Non sarebbe difficile apportare piccole modifiche utili: la richiesta obbligatoria che tutti, insieme, appena consegnati i dossier, li pubblichino on line; che tutti quelli che vincono (e anche i finalisti, dal mio punto di vista) si impegnino a realizzare quanto promesso e a valutare l’impatto che le azioni previste hanno avuto; che la giuria sia davvero indipendente; che la selezione avvenga anche con un sopralluogo nelle città candidate, così come avviene per la selezione a livello europeo.

Trovo inoltre ingiustificata l’idea di aggiungere al titolo di capitale italiana della cultura anche il titolo di capitale dell’arte contemporanea; questa separazione fa pensare che il primo titolo riguardi solo o prevalentemente l’heritage di un territorio, e che arte contemporanea sia un dominio separato, mentre le tendenze sono quelle di produzioni sempre più orizzontali. Inoltre, per concludere, personalmente ritengo impossibile da applicare un criterio di “grandezza”, come si è accennato recentemente. Anche comuni piccolissimi possono proporre grandi innovazioni culturali; anzi è più probabili e perfino più facile che ciò accada. A meno che il titolo non riguardi la produzione culturale, ma serve davvero solo ad attirare nuovi turisti. Una visione che invece necessita tutt’altro ragionamento, e che credo Civita possa proporre al meglio proprio su queste pagine: quale futuro per il turismo culturale nelle città italiane?