Il soft power dell’Italia. Proposte per un possibile modello italiano

di Giuliano da Empoli, Presidente Comitato Strategico dell’Associazione Civita, Presidente del think tank Volta

 

Coniando la definizione di Soft Power, Joseph Nye l’ha definito come “il potere di seduzione che uno Stato esercita sugli altri”. In pratica, per il professore di Harvard, accanto alla forza militare e a quella economica, il peso di un Paese sulla scena internazionale dipende in misura crescente dalla sua capacità di esercitare un’influenza attraverso la comunicazione, l’immagine e la cultura.
Sotto questo profilo, l’Italia parte ovviamente avvantaggiata. La ricchezza del patrimonio artistico, unita al dinamismo delle industrie creative, hanno fatto di noi una superpotenza culturale di default, anche in assenza di una coerente strategia per promuovere la cultura italiana nel mondo.
Nel corso degli ultimi anni, però, la maggior parte dei Paesi che aspirano a giocare un ruolo sulla scena internazionale ha alzato il livello del confronto, inaugurando una vera e propria corsa agli armamenti del Soft Power: non più missili e portaerei, ma canali all-news, scuole di lingua, mostre d’arte e campagne online. Gli esempi vanno dalla “Cool Britannia” di Tony Blair alla creazione, da parte del governo cinese, della rete degli Istituti Confucio in 104 paesi; dal lancio di Al Jazeera, all’ambizioso piano di espansione globale dei musei francesi sotto la regia della nuova Agence France Muséums.
In questa corsa, l’Italia è rimasta indietro. Non tanto per mancanza di fondi, quanto per un deficit di visione. Mentre i musei francesi aprivano succursali in tutto il mondo, i direttori delle nostre istituzioni culturali rimanevano impelagati in vincoli burocratici che gli impedivano perfino di esportare mostre temporanee. Mentre i Goethe Institut e i British Council si riposizionavano sui Paesi emergenti e si trasformavano in piattaforme multimediali per la promozione culturale, i nostri Istituti di Cultura continuavano a presentarsi come le succursali di un ministero. Mentre i governi stranieri varavano campagne di comunicazione integrate e attivavano nuovi canali per parlare al mondo, la voce dell’Italia si disperdeva in mille rivoli, tra gelosie campanilistiche, sovrapposizioni di competenze e bizantinismi della TV di Stato. Per non parlare della promozione turistica, divenuta ormai un caso di scuola della caotica sovrapposizione tra diversi livelli istituzionali.
Per il nostro Paese non si tratta solo di un problema in termini di influenza e di prestigio. La capacità di un Paese di proiettare all’esterno un’immagine positiva ha un impatto decisivo su almeno tre fronti economici di primaria importanza: l’export di beni e servizi, l’attrazione di investimenti diretti dall’estero e il turismo. Ecco perché le aziende italiane che operano a livello internazionale vivono con crescente disagio il ritardo delle istituzioni su questo versante. Tanto più che il settore privato ha sviluppato in materia esperienze di assoluta eccellenza, alle quali dobbiamo, in larghissima misura, la percezione positiva della quale l’Italia continua a beneficiare nel mondo.
Con la pubblicazione del Primo Rapporto sul Soft Power italiano, l’obiettivo di Civita è quello di aprire un vasto confronto pubblico/privato su questo tema, considerando per la prima volta in modo unitario l’insieme degli strumenti a disposizione dell’Italia per promuovere la sua cultura e la sua immagine nel mondo: dagli Istituti di Cultura all’estero alle scuole Dante Alighieri, dalle missioni archeologiche e di restauro alle grandi mostre, da RAI International a Enit e ICE.
Il Soft Power dell’Italia vive fuori dalle istituzioni. Sta nella ricchezza della sua storia e della sua cultura. Sta nel fascino del suo gusto e delle sue abitudini. Sta nel coraggio dei suoi emigranti e nel talento dei suoi artisti, professionisti e ricercatori che illuminano il mondo con la forza della loro creatività e della loro competenza. Sta nella qualità delle sue aziende che setacciano il pianeta alla ricerca di nuove occasioni e portano dappertutto lo stile unico del made in Italy. In un certo senso, è sempre stato così: il nostro problema è istituzionalizzare una cosa che c’è già, non inventarla da zero. Portare un po’ di questa ricchezza dentro le istituzioni della politica estera e della diplomazia culturale per trasformarla in vero soft power. Sotto questo profilo c’è ancora molto lavoro da fare, ma, negli ultimi anni, qualche progresso è stato fatto. Alcune iniziative hanno avuto grande visibilità. Si pensi, naturalmente a Expo che con i suoi 21,5 milioni di visitatori – e i 62 capi di Stato e di governo che l’hanno attraversata – ha costituito un’occasione unica per valorizzare la capacità attrattiva del nostro Paese e per posizionarlo al centro del dibattito internazionale su questioni strategiche per l’umanità dei prossimi decenni, come l’accesso al cibo e la sostenibilità alimentare del pianeta. Altre iniziative meno visibili, come la promozione della lingua italiana nel mondo e la costituzione dei caschi blu dell’UNESCO a difesa del patrimonio culturale mondiale, hanno comunque dimostrato la capacità del nostro Paese di fare leva su esperienze consolidate per giocare un ruolo più attivo sulla scena culturale globale.
Alla luce di queste, e di altre, esperienze, è chiaro che la reinvenzione del Soft Power italiano non parte da zero. Il problema è quello di aggredire i nodi fondamentali rimasti irrisolti finora. In un contesto di risorse pubbliche limitate, si tratta di prendere bene la mira e puntare su interventi strategici più che su investimenti faraonici. Nella conclusione del Primo Rapporto sul Soft Power italiano, abbiamo provato a formulare alcune proposte che vanno in questa direzione: dalla creazione di un’unica voce per la cultura italiana all’estero, l’Istituto Leonardo, al lancio di un programma di Young Leaders sul modello di quelli che Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito possiedono già da decenni per stabilire rapporti con le future classi dirigenti dei paesi emergenti. Dalla costituzione di un Digital Hub all’interno del Ministero degli Esteri all’attivazione di una serie di nuovi strumenti per mettere in rete gli italiani all’estero in forme che vadano al di là di quelli, ottocenteschi, attualmente esistenti.
Queste prime proposte non esauriscono, beninteso, il vasto terreno delle iniziative che si possono mettere in campo per promuovere il Soft Power italiano. Vogliono essere, al contrario, un semplice invito ad approfondire un argomento che è rimasto troppo a lungo distante dalle preoccupazioni dei decision-maker italiani. L’elaborazione del Rapporto – e le successive occasioni di presentazione e discussione – stanno coinvolgendo numerosi interlocutori pubblici e privati e potranno costituire l’occasione, per Civita, di diventare il luogo di discussione privilegiato su un tema strategico per il futuro del nostro Paese.