L’evoluzione degli istituti della cultura

Testo di Sabino Cassese, Giudice Emerito della Corte Costituzionale.

Tratto dall’ebook “Cultura come diritto: radici costituzionali, politiche e servizi” scaricabile gratuitamente dai portali di Civitae di A&A Studio Legale.

 

Introduzione
Quali sono le trasformazioni che stanno interessando la cultura nel mondo contemporaneo? Cinque sono le tendenze fondamentali: il passaggio da una concezione nazionalistica a una concezione universale della cultura; il passaggio dalla frammentazione all’unitarietà del patrimonio culturale; il passaggio dalla logica dell’utilizzo a quella dell’“eternità” della cultura; il passaggio dalla dimensione di “reità” a quella di “servizio” del bene culturale; il passaggio dalla separatezza all’interconnessione della cultura.

Il passaggio da una concezione nazionalistica a una concezione universale della cultura
Quanto alla prima tendenza, ossia il passaggio da una concezione nazionalistica, o sovranista, a una concezione universale, o globale, della cultura, è noto che, tradizionalmente, la cultura è sempre stata associata alla storia di una determinata nazione, e anzi è sempre stata ritenuta un elemento costitutivo della stessa identità nazionale.
Si pensi alla celebre tesi di Ernest Renan, secondo il quale l’identità di una nazione si identifica propriamente nella lingua e nella cultura di un popolo. Oggi, la nostra concezione della cultura è profondamente diversa: non è più circoscritta e indissolubilmente legata, come in passato, all’ambito nazionale, ma è divenuta universale. Ne è conferma il fatto che tutti i più significativi studi aventi per oggetto la cultura, pubblicati negli ultimi anni, adottano un approccio globale, muovendo da una prospettiva di ricerca che sarebbe stata impensabile fino a qualche tempo fa. Per fare qualche esempio, ricordo il celebre saggio dell’antropologo statunitense Jared Diamond, intitolato Guns, germs, and steel, il recente libro dello storico israeliano Yuval Harari, intitolato, nella traduzione italiana, 21 lezioni per il XXI secolo, e il libro di Emanuele Felice, Storia economica della felicità. Si tratta di studi che hanno tutti in comune l’adozione di una prospettiva di analisi e di ricerca universale, ossia un approccio tendente a rintracciare gli elementi condivisi dalle culture di tutto il mondo e le intersezioni esistenti tra di esse, così tentando di mostrare la fallacia, o perlomeno la miopia, di un atteggiamento, quale quello da noi adottato per secoli, volto a ricostruire la cultura e il patrimonio culturale come fatti puramente ed esclusivamente nazionali. Nella stessa logica deve essere letta la recente tendenza, propria della storiografia, a riscoprire e a rileggere le storie nazionali in chiave mondiale. Mi riferisco al celebre saggio di Patrick Boucheron, intitolato, nella traduzione italiana, Storia mondiale della Francia, cui ha fatto seguito in Italia il libro a cura di Andrea Giardina, Storia mondiale dell’Italia. Già solo i titoli di queste pubblicazioni sono sintomatici di un diverso angolo visuale: non più soltanto storia nazionale, ma storia di un determinato Paese all’interno e in relazione alla storia del mondo intero. Come gli storici, così anche i linguisti hanno di recente mutato prospettiva e oggetto delle loro ricerche, concentrando gli studi sulle cosiddette “strutture transglottiche di superstrato”, ossia su quegli elementi che, pur nella grande diversità degli idiomi, accomunano tra loro le lingue di molte parti del mondo, mostrandone profonde analogie. Questa nuova concezione della cultura, da fatto nazionale a fatto globale, comporta, come corollario, che ogni bene culturale venga oramai concepito come qualcosa che deve essere aperto alla fruizione universale8. Il patrimonio culturale di ogni nazione, considerato come momento della cultura globale, deve pertanto essere accessibile a tutti gli abitanti del mondo, e non solamente ai cittadini di quella nazione, i quali, a loro volta, avranno libero accesso alle manifestazioni culturali di tutti gli altri popoli. Questo orientamento era già chiaro negli Stati Uniti nel 1872, quando una legge nazionale creò il primo parco, quello di Yellowstone, “for the benefit and enjoyment of the people”.
La cultura, pertanto, non è più oggi, propriamente, un diritto di cittadinanza, e cioè una prerogativa riservata ai soli possessori dello status civitatis del Paese che quella cultura ha prodotto, ma è ormai pacificamente considerata un vero e proprio diritto dell’uomo. A questa concezione globalista della cultura non osta il risorgente nazionalismo, che trova a sua volta un limite nella Costituzione italiana, in cui persino il lemma “nazione” ricorre raramente (in particolare, per affermare che i membri del Parlamento rappresentano la nazione e gli impiegati pubblici sono al servizio esclusivo della nazione: articoli 67 e 98).

Il passaggio dalla frammentazione all’unitarietà del patrimonio culturale
La seconda trasformazione consiste nel passaggio da una dimensione frammentaria a una dimensione unitaria di patrimonio culturale, ossia, in altri termini, nella nascita e nello sviluppo di una concezione volta a considerare il bene culturale come inseparabile dal contesto in cui è nato: non più, dunque, i beni culturali presi singolarmente, come oggetti separati, ma l’opera globalmente intesa, comprensiva dell’ambiente in cui è stata prodotta e originariamente collocata.
Secondo la tesi sostenuta da Giovanni Urbani, direttore dal 1973 al 1983 dell’Istituto Centrale del Restauro (oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro), ciò che è veramente essenziale, nell’ottica della conservazione e valorizzazione del bene culturale, non è tanto il restauro in sé dell’opera, quanto la restituzione della stessa al proprio ambiente di origine.
È esattamente in quest’ottica che, per esempio, l’attuale direttore del Parco Archeologico di Pompei, Massimo Osanna, sta profondendo molti sforzi nel tentativo di riportare nei luoghi di origine gli oggetti e i manufatti rinvenuti all’interno del parco stesso. Tali reperti sono stati in passato asportati e trasferiti al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, così di fatto spogliando il sito archeologico dei propri beni. La tendenza si sta ora invertendo, e Pompei sta tornando ad accogliere gli oggetti che a quei luoghi appartengono, in un’ottica, per l’appunto, di valorizzazione della dimensione unitaria del patrimonio culturale.
Si potrebbe quindi dire, con un’espressione allegorica, che bene descrive la situazione in atto a Pompei, che la trasformazione dalla frammentazione all’unitarietà del patrimonio culturale è volta, in un certo senso, a “rimettere le pentole nella cucina”, e cioè a riportare i beni culturali all’interno dei luoghi ai quali appartengono. E, si badi bene, sostenere che le opere appartengono a  determinati luoghi non significa affatto sostenere, come del resto si è argomentato sopra, che esse appartengono ai cittadini di quei luoghi, ma, in un senso del tutto diverso, che appartengono a un “bene culturale” complessivamente inteso, che non è costituito soltanto dai singoli oggetti che lo compongono, ma da quegli stessi oggetti all’interno del contesto in cui sono stati prodotti e usati.

Il passaggio dalla logica dell’utilizzo alla logica dell’“eternità” della cultura
La terza modificazione risiede nella maturazione di una sensibilità per la dimensione “eterna” (da intendersi in senso laico) del bene culturale, che si traduce in un’attenzione sempre maggiore per la conservazione nel tempo dell’opera.
Si sta cioè diffondendo la consapevolezza che la fruizione del bene culturale da parte di un grande afflusso di visitatori o utenti rischia di danneggiare, o consumare, il bene stesso, e si avverte conseguentemente l’esigenza di porre rimedio alla distruzione del patrimonio. Si passa, così, da una logica di mero “utilizzo” a una logica di “eternità”, ossia di salvaguardia nel tempo dei beni culturali. Per dare conto di questa tendenza penso, per esempio, al dibattito di recente sviluppatosi attorno all’idea di chiudere al pubblico l’accesso alla Cappella Sistina, consentendo ai visitatori di godere solo della sua riproduzione, allestita nell’Auditorium di via della Conciliazione a Roma.
Oppure al fatto che molte biblioteche, tra cui la celebre Bodleian Library di Oxford, abbiano deciso di limitare o impedire la consultazione di alcuni volumi particolarmente preziosi, onde evitarne la distruzione per l’eccessivo utilizzo.
Senza entrare nel merito dei casi concreti, è qui però evidente il tentativo di trovare un contemperamento tra due opposte esigenze, tra loro non sempre facilmente conciliabili: da un lato, quella della fruizione del bene culturale, dall’altro, quella della sua conservazione nel tempo. Si tratta di un problema che in passato non veniva avvertito, ma al quale oggi, necessariamente, si deve tentare di dare una soluzione, pena il rischio di perdere irrimediabilmente alcuni beni culturali.

Il passaggio dalla dimensione di “reità” alla dimensione di “servizio” del bene culturale
La quarta modificazione consiste nel passaggio da una logica di “reità” a una logica di “servizio” del bene culturale, o anche, in altri termini, da una dimensione “proprietaria” – e dunque incentrata, staticamente, sull’oggetto – a una dimensione “imprenditoriale” –ossia incentrata sulle attività connesse al bene (conservazione, cura, tutela, conoscenza, ricerca, educazione, valorizzazione, fruizione) al fine dell’erogazione di un servizio. Tale trasformazione già emerge dallo slittamento lessicale della legislazione italiana in materia: essa nasce come normativa sulle “cose”, per divenire poi normativa sui “beni”, in seguito normativa sul “patrimonio”, successivamente normativa sull’“eredità”, e infine, per l’appunto, normativa sul “servizio” culturale. Volendo usare una metafora, si potrebbe dire che se in passato il bene culturale poteva anche stare rinchiuso dentro una cassaforte, oggi si tende a considerare tale soltanto quello che sta fuori dalla cassaforte, e che dunque consente, attraverso la propria fruizione, l’erogazione di un servizio alla collettività. In questo senso, istituti come l’antiquarium, ossia collezioni chiuse di beni culturali preordinate alla sola conservazione dei beni stessi, stanno perdendo la propria attualità, proprio perché non permettono lo svolgimento di attività di servizio connesse al patrimonio culturale conservato. Si tratta di una trasformazione notevole, che riconosce il valore del bene culturale non tanto in sé, ma in quanto fruito. Nel nostro ordinamento, ad esempio, dà conto di questo nuovo approccio alla cultura, concepita come “servizio”, l’art. 1, comma 2, lett. a), della legge n. 146/1990, relativa all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, laddove sono garantiti, in quanto volti ad assicurare il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, “i servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali; l’apertura al pubblico regolamentata di musei e altri istituti e luoghi della cultura”. Si tratta peraltro di una trasformazione che per molti aspetti è ancora in fieri, certo lontana dal giungere a compimento, ma senza dubbio profonda e radicale rispetto al passato.

Il passaggio dalla separatezza all’interconnessione della cultura
L’ultima trasformazione in atto è quella che consiste nel passaggio dalla separatezza all’interconnessione della cultura, e cioè da una concezione incentrata sul bene o l’attività culturale in sé considerati, a una concezione che guarda al bene o all’attività culturale in quanto elementi facenti parte di un più ampio quadro di “sviluppo” di un determinato territorio o di una determinata comunità.
Si pensi ai vari accordi di partenariato siglati in attuazione delle politiche comunitarie di coesione sociale, che disciplinano l’utilizzo dei finanziamenti nel quadro dei rapporti tra l’Unione europea, lo Stato, le Regioni e le Città Metropolitane: ebbene, in essi un capitolo essenziale è oggi rappresentato proprio dalle attività che riguardano la cultura e i beni culturali. Ciò significa che il patrimonio culturale è ormai considerato un ingrediente essenziale dello sviluppo di un Paese, che non è più determinato solamente, come in passato, dalle opere pubbliche, dall’industria e dall’agricoltura, ma anche dai servizi e dalle iniziative culturali. Ne consegue un impegno di tutto lo Stato per la cultura, e non soltanto del Ministero per i beni e le attività culturali, proprio perché la cultura non è più trattata come un settore a sé stante, ma è un elemento per lo sviluppo dell’intero territorio.

Conclusione
Questo quadro, in cui sono state delineate, per sommi tratti, le principali trasformazioni che stanno interessano ai giorni nostri il mondo della cultura, ci consente una considerazione finale: il vero tema, decisivo per il nostro futuro, non è solo e non è tanto quello della cultura come diritto fondamentale dell’uomo, ma, in un senso più ampio, quello della cultura nella società, e dunque del rapporto tra beni e servizi culturali e comunità. L’idea di fondo è che, così come una comunità ha bisogno di ospedali, e trasporti, e uffici pubblici, allo stesso identico modo abbia anche bisogno di quel complesso di attività e servizi che rientrano comunemente nella definizione di “cultura”.
Le trasformazioni sopra descritte sono in divenire, e molta strada dovrà essere ancora percorsa per giungere alla piena comprensione e coscienza di questo nuovo modo di concepire la cultura, che non è qualcosa di statico e separato, ma, all’opposto, vive e si modifica costantemente all’interno della società. Può essere utile ricordare una norma solitamente poco citata della Costituzione, e cioè l’art. 4, comma secondo, che, dopo il riconoscimento del diritto al lavoro operato dal comma primo, aggiunge che tutti i cittadini hanno anche “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ebbene, è proprio questo dovere, gravante su ciascun cittadino, di contribuire al progresso materiale e spirituale della comunità, che deve guidare la lettura dell’art. 9 della Costituzione, e farci comprendere che la cultura non è soltanto un insieme di oggetti che il Ministero per i beni e le attività culturali ha in esclusiva il compito di conservare e tutelare, ma è parte integrante e imprescindibile della nostra vita e del nostro impegno all’interno della società.